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venerdì 10 maggio 2013

Andreína (Vals Venezolano N°2)


Inspiro. Non sono agitato, mi sento tranquillo. Espiro, con calma.
Sarà la ventesima esibizione del mese, il giudizio della gente non mi spaventa, forse nemmeno mi interessa. Voglio solo tutto risulti perfetto, che la mia interpretazione esprima le sensazioni che Antonio Lauro, con il suo spartito, intendeva comunicare. Imbraccio la chitarra e con affetto, quasi accarezzassi la schiena della mia fidanzata, lascio scorrere i polpastrelli lungo i tasti, sfiorando le corde. Chiudo lentamente gli occhi, ascoltando per qualche istante i battiti del cuore; melodici, regolari, scandiscono come un metronomo il passare del tempo.
Le mie unghie iniziano a pizzicare lo strumento prima dolcemente, poi in modo energico, ma mai violento. Dopo le prime note le dita, le mani, i tendini, continuano a muoversi senza il mio volere: sto suonando, fatico a rendermene conto. La melodia inizia ad avvolgere lo spazio circostante, trasportandomi in una terra che conosco da tempo, ma non ho mai visitato realmente.
Una tiepida brezza dall'aspro retrogusto di asfalto, rhum e spezie, inizia a baciarmi il viso. Nella piazza principale di Caracas, seduto su uno sgabello, Antonio Lauro continua a suonare il suo valzer, accompagnato da un sottofondo di risa e schiamazzi. Affiancato da decine di coppie stringo al petto la mia compagna, volteggiando leggero per le strade della capitale; probabilmente danziamo da un minuto, forse da alcune ore, chissà. So per certo di non essere stanco, di voler seguire la musica fino alla nota conclusiva. Inesorabilmente, qualche istante dopo, io e Antonio pizzichiamo per l'ultima volta le corde. Smetto di ballare e, allo stesso tempo, fermo le dita, allontanandole dalla chitarra. Ho ancora gli occhi chiusi e desidererei non doverli riaprire.

"Bravo!"

Inspiro. Espiro, quasi irritato. Apro le palpebre e un mesto applauso di quattro o cinque passanti mi sveglia completamente dal sogno lucido; sorrido e con un cenno del capo dimostro una riconoscenza che non mi appartiene. Sto suonando per Lauro, per me, forse per loro. Mi alzo dalla panchina e il vento salato che aleggia sul Porto Antico, accompagnato da un aroma di piscio e acqua stagnante, mi schiaffeggia, come volesse punire la mia ingratitudine. Raccolgo qualche spicciolo dalla custodia e, per un istante, penso di tornare a casa; l'odore di fogna che violenta le mie narici mi fa cambiare idea. Ancora un valzer, l'ultimo per oggi. Torno a sedere e poggio la chitarra sulla coscia, cullandola.
Inspiro. Espiro, chiudendo gli occhi.


Federico E. Mariotti

mercoledì 8 maggio 2013

Il punto di non ritorno


Il traffico della Domenica pomeriggio non è un evento sporadico o casuale; sistematico, quasi programmato, il flusso delle automobili si blocca lungo la strada adiacente al torrente Polcevera. Spesso penso esista una legge fisica o una funzione matematica che ne regoli l'avvenimento. Pochi metri dopo, i neon dei centri commerciali mi fanno miracolosamente rinsavire.
Mi trovo anch'io lì, lungo un fiume d'asfalto cosparso da scatole di lamiera. Intorno a me decine di nervosi automobilisti, convinti che il suono del clacson possa far muovere di qualche metro le macchine altrui. Non capisco la loro agitazione, io non posso desiderare di meglio: il silenzio all'interno dell'abitacolo mi permette di discutere con me stesso, di riflettere, di programmare. Ad accompagnare i miei pensieri solo il costante lamento dei tergicristalli sul parabrezza; mossi da un ineguagliabile orgoglio, mi danno l'idea di voler sconfiggere la pioggia prendendola per stanchezza, di voler sfidare le intemperie asciugando il vetro una goccia alla volta.
Maria mi aspetta all'angolo della strada, un paio di chilometri più avanti. Si fa scudo dall'acqua con un minuscolo ombrello viola, probabilmente acquistato a una bancarella, che la costringe a rendersi ancora più piccola e minuta di quanto in realtà già sia. Mi conosce da più di vent'anni, ma ad ogni incontro mi dimostra il suo affetto in maniera sincera e unica. Perfino il suo modo di salutarmi è diverso; non si limita ad appoggiare gli zigomi ai miei, baciando l'aria sopra le mie spalle. Vuole farmi sentire il calore delle labbra, accompagnando ogni singola effusione con un rumoroso schiocco. Sa quanto possa essere agitato a una settimana dal matrimonio con Simona e quanto possa mettermi in difficoltà rispondere a inutili domande; salita in macchina decide di restare in silenzio e sorridere, fissandomi con i suoi piccoli occhi cerulei. Anche per questo è la mia amica più cara.
Lentamente il traffico torna a scorrere e raggiungiamo il lungomare di Pegli in poco meno di venti minuti. Ha smesso di piovere, ma poche persone hanno deciso di sfidare l'instabilità del cielo. A farci da colonna sonora solo l'infrangersi delle onde sugli scogli e il timido cinguettio degli uccelli, quasi volessero festeggiare con noi una possibile, ma improbabile, sortita del sole al di là delle nuvole. Il silenzio nelle mie orecchie entra violentemente in contrasto con le domande che pulsano nel mio cervello; a breve giurerò eterna fedeltà alla mia compagna, promettendole di amarla e onorarla finché la morte, o qualcosa di decisamente più terreno, ci separerà. La consapevolezza di essere giunto al punto di non ritorno mi mette con le spalle al muro.
Maria mi segue taciturna, mettendo un piccolo passo dietro l'altro. Conosce il mio silenzio e con adorabile tempismo prende la mia mano. Mi fermo a fissare i suoi occhi azzurri alla ricerca di risposte che non mi darà, ma mi comunicherà in ogni caso. Sorride, lasciando orgogliosamente intravedere sul suo viso gli inevitabili segni del passare degli anni. Improvvisamente sento la mente alleggerirsi e smetto di pormi inutili domande; chiudo gli occhi qualche secondo, assaporando l'aria salata che aleggia sul molo di Pegli. Poi, come facevo da bambino, mi limito a stringere forte la mano di mia madre, della mia amica più cara, e continuo a camminare. In silenzio.


Federico E. Mariotti

Le mie immagini in bianco e nero


Sembrava passato un attimo, saranno state almeno tre ore. Supino, immobile, lo sguardo a fissare il soffitto. Nella mia staticità i pensieri si agitavano in un turbinio di immagini e preoccupazioni. Non avevo mai odiato tanto le mie sinapsi.
Prima di un lungo viaggio non riesco, forse non posso, addormentarmi. Era così quando ero poco più di un bambino, è così ora che ho quasi trent'anni. Questa volta, tuttavia, non erano le sette ore di treno e l'ansia di non arrivare in tempo al binario a togliermi il sonno. Forse in parte sì; ma quando ad attenderti c'è l'ultimo inesorabile incontro con il futuro che avresti voluto, con il tuo recente passato, le insicurezze si amplificano esponenzialmente. Se a questo si aggiunge il mio atavico pessimismo, l' ipnotico rapporto con il soffitto di camera è facilmente spiegato.
Monica vive e lavora a Marsiglia. Doveva essere un trasferimento provvisorio dovuto ad un Master post-laurea ma si è trasformato, col passare dei giorni, nella tomba della sua passione. Il rapporto non è più lo stesso da qualche settimana, forse qualche mese. In origine facevo della frase “la distanza fortifica l'amore” il mio mantra quotidiano, la mia ragione di vita. Ora le mie paranoie, le mie insicurezze, le mie paure, ne hanno preso violentemente e brutalmente il posto. Oggi, com'era ovvio che fosse, tutto questo avrà fine; mi ha chiesto di andarla a trovare, mi vuole parlare. So di non essere uno stupido, ho la piena consapevolezza di ciò che sta per accadere e non voglio illudermi. Sarebbe solamente più doloroso.
Il bagaglio è pronto nell'atrio. Non guardo l'orario, so di essere in anticipo. Per la prima volta decido di rinunciare al caffè mattutino; i miei nervi non ne hanno davvero bisogno. La stazione di Genova Principe dista poche centinaia di metri dal mio appartamento,non più di cinque minuti a passo svelto: tanto vale avviarsi.
Via Balbi sale dolce ma inclemente verso l'ultimo luogo che vorrei raggiungere, ora come ora la più aspra delle destinazioni. È presto, ma sorprendentemente soleggiato; la luce però, malgrado non abbia dormito, non mi infastidisce. Allo stesso tempo, la strada è più deserta di quanto mi aspettassi. Incontro una manciata di persone, nessun viso conosciuto; a dire il vero sono così immerso nel mio malessere da non badare ai lineamenti dei pochi passanti che incrocio, come fossero manichini privi di tratti e colore. Non smette di risuonarmi nelle orecchie ciò che Monica mi dirà, come me lo dirà, quanto farà male.
Senza rendermene conto sono al binario; il silenzio in stazione è irreale,quasi spaventoso. Non guardo l'ora ma so che il treno sta per arrivare. Aspetto l'annuncio dell'altoparlante come un liceale attende il suo cognome prima di un' interrogazione; la voce registrata delle Ferrovie, preceduta dal suono del mio citofono, non si fa attendere. Lo stridio dei freni sui binari, il fischio del treno in prossimità della fermata, ancora una volta il suono del citofono. Il citofono....
Spalanco gli occhi e le immagini della stazione, che fino a un istante fa erano nitide davanti ai miei occhi, svaniscono improvvisamente. La luce soffusa ma pungente della lampada, non ricorda il candido e piacevole chiarore del sole in Via Balbi; a fatica riesco ad aprire completamente le palpebre. Il citofono continua a suonare. Mi precipito nell'atrio e inizio a rendermi conto di ciò che mi aspetta. Avevo sì un appuntamento, ma non ero io che dovevo viaggiare.
Monica è li, che mi fissa sull'uscio. Sorride, e questo basta a placare le mie ansie, a frenare le mie paure. È sufficiente un suo abbraccio e le immagini di prima non sono che un effimero ricordo in bianco e nero. È sufficiente un barlume del suo amore e il mio subconscio tace. Per un istante il tempo si ferma, come in un sogno, meglio che in un sogno. Non so quanto resterà, non m'importa. Finché è qui con me, non ho davvero niente da temere.


Federico E. Mariotti

Rose, Marlboro e Čajkovskij

Ilenia ama il suo lavoro. Ha il viso pallido e stanco, le mani rugose e poco curate. Lo sa, ma non le importa. La dedizione e la passione che dedica al suo mestiere le hanno insegnato, col tempo, quali siano le priorità. Ogni giorno i vasi e i bancali sembrano più' pesanti, ogni sera la terra rimane fra le sue unghie più abbondante e meno propensa ad andarsene. Ilenia, col passare degli anni, ha però imparato ad apprezzare al massimo ciò che il lavoro può darle.
Gestisce solitaria un chiosco di fiori nella periferia Genovese. Non ha turni né colleghi; non deve rendere conto a nessuno se non ai suoi clienti, sul lavoro come nella vita privata. Vive da sola in un appartamento a pochi chilometri dal suo negozio. In quarant'anni, tralasciando qualche relazione di poco conto, non ha mai trovato un uomo per il quale valesse la pena mettersi in gioco. 
Ogni mattina si sveglia alle sei e mezza per aprire alle otto. Il viaggio non dura più di quindici minuti di macchina, tragitto che ormai sarebbe in grado di percorrere nel sonno: il fiume Bisagno a destra, i pochi semafori lungo la strada, la rotonda appena prima del suo gazebo. Ogni mattina, da quasi vent'anni.
Ilenia fuma molto. Probabilmente lo fa più per noia che per vizio, dovendo passare ore intere sola con i suoi fiori. Sua madre continua a dirle che questo la ucciderà, ma a lei non interessa. Ha visto fumatori campare novant'anni e ragazzini morire di infarto durante una corsa campestre. Poi non potrebbe mai rinunciare alla prima Marlboro della giornata: il calore del filtro sulle labbra, il sapore di tabacco in gola, il profumo delle sue rose nell'aria. Solo per questo vale la pena rischiare.
Oggi è un fine giornata come tutti gli altri: i clienti scarseggiano e il sole inizia a scendere. Ilenia si accende l'ennesima sigaretta e si prepara a riordinare i bancali per l'ultima volta. Le note di Čajkovskij, trasmesse alla radio, si uniscono all'unisono con il profumo dei fiori, trasportato dal vento primaverile; per un attimo non esiste stanchezza, non esistono preoccupazioni. Il dolore alle gambe, ogni sera più cocente, scema lentamente. Ilenia ama il suo lavoro anche per questo.
La strada del ritorno è sempre la stessa, ancora una volta, da vent'anni. La rotatoria, qualche semaforo, il fiume alla sua sinistra per qualche chilometro. Non questa sera. Dopo la rotonda, non ci sarà il  Bisagno ad attenderla; una scia rossa, un rumore sordo e un dolore improvviso, quasi inumano. Poi silenzio. Per un attimo non esisterà sofferenza, non esisterà stanchezza, non esisteranno preoccupazioni. Solo un intenso profumo di fiori, delle sue rose, e il suono del violino di Čajkovskij.

Federico E. Mariotti