Inspiro.
Non sono agitato, mi sento tranquillo. Espiro, con calma.
Sarà
la ventesima esibizione del mese, il giudizio della gente non mi
spaventa, forse nemmeno mi interessa. Voglio solo tutto risulti
perfetto, che la mia interpretazione esprima le sensazioni che
Antonio Lauro, con il suo spartito, intendeva comunicare. Imbraccio
la chitarra e con affetto, quasi accarezzassi la schiena della mia
fidanzata, lascio scorrere i polpastrelli lungo i tasti, sfiorando le
corde. Chiudo lentamente gli occhi, ascoltando per qualche istante i
battiti del cuore; melodici, regolari, scandiscono come un metronomo
il passare del tempo.
Le
mie unghie iniziano a pizzicare lo strumento prima dolcemente, poi in
modo energico, ma mai violento. Dopo le prime note le dita, le mani,
i tendini, continuano a muoversi senza il mio volere: sto suonando,
fatico a rendermene conto. La melodia inizia ad avvolgere lo spazio
circostante, trasportandomi in una terra che conosco da tempo, ma non
ho mai visitato realmente.
Una
tiepida brezza dall'aspro retrogusto di asfalto, rhum e spezie,
inizia a baciarmi il viso. Nella piazza principale di Caracas, seduto
su uno sgabello, Antonio Lauro continua a suonare il suo valzer,
accompagnato da un sottofondo di risa e schiamazzi. Affiancato da
decine di coppie stringo al petto la mia compagna, volteggiando
leggero per le strade della capitale; probabilmente danziamo da un
minuto, forse da alcune ore, chissà. So per certo di non essere
stanco, di voler seguire la musica fino alla nota conclusiva.
Inesorabilmente, qualche istante dopo, io e Antonio pizzichiamo per
l'ultima volta le corde. Smetto di ballare e, allo stesso tempo,
fermo le dita, allontanandole dalla chitarra. Ho ancora gli occhi
chiusi e desidererei non doverli riaprire.
"Bravo!"
Inspiro.
Espiro, quasi irritato. Apro le palpebre e un mesto applauso di
quattro o cinque passanti mi sveglia completamente dal sogno lucido;
sorrido e con un cenno del capo dimostro una riconoscenza che non mi
appartiene. Sto suonando per Lauro, per me, forse per loro. Mi alzo
dalla panchina e il vento salato che aleggia sul Porto Antico,
accompagnato da un aroma di piscio e acqua stagnante, mi
schiaffeggia, come volesse punire la mia ingratitudine. Raccolgo
qualche spicciolo dalla custodia e, per un istante, penso di tornare
a casa; l'odore di fogna che violenta le mie narici mi fa cambiare
idea. Ancora un valzer, l'ultimo per oggi. Torno a sedere e poggio la
chitarra sulla coscia, cullandola.
Inspiro.
Espiro, chiudendo gli occhi.
Federico E. Mariotti